Come anticipato nei numeri precedenti, uno dei quesiti più dibattuti in ambito di diffamazione e nuove tecnologie è quello della riconducibilità della diffamazione ad un determinato soggetto. Si prenda ad esempio la casistica dell’offesa pubblicata sui social o su un sito web. Una risposta ha cercato di individuarla la Suprema Corte con la pronuncia n. 34406/2015. Era in esame il caso di un ex marito di una donna che era accusato di avere “postato” su un sito web due annunci apparentemente provenienti dalla ex moglie, con i quali quest’ultima offriva prestazioni di natura sessuale, diffondendo anche, senza il consenso dell’interessata, i suoi numeri di telefono. Ecco che diviene fondamentale rintracciare il soggetto responsabile e per fare ciò e di fondamentale aiuto l’indirizzo IP da cui è pervenuta la comunicazione. L’indirizzo IP è un identificatore unico – un po’ come un indirizzo postale – associato alla propria attività online. Ogni qualvolta si utilizza internet (per acquisti online, per inviare mail, guardare la TV..) si richiede l’accesso a una specifica destinazione online e, in cambio, verranno inviate le informazioni richieste. IP sta per “Internet Protocol Address”, cioè protocollo che stabilisce gli standard e le regole per l’indirizzamento dei dati e la connessione a internet. Per la risoluzione del caso sopra esaminato, la Suprema Corte ha preso come riferimento il collegamento alla rete internet e, in particolare, proprio l’indirizzo IP collegato al router WI-FI dell’imputato, allocato presso la sua abitazione. Il collegamento era infatti avvenuto attraverso l’utenza telefonica fissa e nessun altro sarebbe stato in grado di utilizzare un computer all’interno dell’abitazione né l’imputato sarebbe riuscito a dimostrare il contrario. I giudici si sono avvalsi, perciò, di prove tecnico – scientifiche ed argomentazioni di tipo logico, posto che l’IP consente di risalire, senza possibilità di equivoci, al dispositivo informatico – nel nostro caso – il PC dell’imputato collegato alla rete informatica – utilizzato per postare l’annuncio diffamatorio. Si potrebbe pensare, come ha provato a fare la difesa, che dato che non erano stati fatti accertamenti sullo specifico computer, tali offese potessero provenire da un ignoto buontempone che si fosse collegato abusivamente alla rete WI-FI dell’imputato ricollegandosi quindi al suo indirizzo IP. Tuttavia, le misurazioni e le prove hanno consentito di accertare che le reti WI-FI non prendessero collegamento fuori da una – massimo due stanze. Questo tale “ignoto” avrebbe dovuto pertanto appostarsi all’interno dell’abitazione e quindi si sarebbe trattato di un soggetto ben noto all’imputato. Con questa e con altre sentenze si evidenzia l’importanza, nella risoluzione delle casistiche di diffamazione, dell’”Internet Protocol Adress” per risalire con certezza al dispositivo collegato alla rete informatica. Avv. Filippo Martini
L’ambiente influenza in modo diretto e indiretto fattori che possono avere impatto sulnostro benessere.La qualità della nostra vita dipende dai cibi che mangiamo, dall’ariache...